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Come superare la paura di rischiare in modo intelligente

giovedì 13th giugno

William Gurstelle lavora come editore per la rivista Popular Mechanics. Dotato di una forte personalità , dopo anni di ricerche, è arrivato alla conclusione che la propensione di un individuo a correre rischi abbia un impatto molto forte sul suo grado di felicità e di soddisfazione personale. Questa convinzione ci riporta alla sempiterna questione della capacità di controllo dell’uomo sul proprio destino. La scienza ci dice che le persone fortunate traggono vantaggio, più di altre, dagli incontri fortuiti e dalle opportunità provvidenziali. In altre parole, queste persone sono più propense a rischiare.

Gli studiosi sono arrivati alla conclusione che è possibile valutare se una persona sia più o meno propensa al rischio utilizzando una scala simile a quella che valuta il quoziente intellettivo, ossia da 1 a 100. Se provassimo a intervistare un gruppo piuttosto ampio e variegato di persone, scopriremmo che la maggior parte non è né troppo coscienziosa né troppo spavalda. Molti di noi, infatti, tendono a collocarsi nel mezzo di questi due estremi. Alla destra di questi individui si trova quel gruppo di persone che Gurstelle definisce Golden Third, “il 30% aureo”. Lo studioso dimostra che le persone che appartengono a questa categoria, ossia quelle che tendono a correre rischi più spesso di altre, sono anche quelle che dimostrano un indice qualitativo di vita e di soddisfazione più alto.

Ovviamente, per far parte di questo 34%, bisogna imparare a trovare il giusto equilibrio. Tyler Tervooren, fondatore della Advanced Riskology, associazione che ha come scopo quello di aiutare le persone ad affrontare i rischi in modo più coscienzioso e a vivere le proprie vite più serenamente, ci ha offerto alcuni consigli, che speriamo vi spronino ad aggiungere un pizzico di coraggio alle vostre vite.  

Perché le persone hanno paura di rischiare e come possono reagire a questa riluttanza?

Tyler:  La maggior parte delle persone è pronta a rischiare perché non capisce le reali proporzioni di questo atto. Questo vale anche per la maggior parte delle questioni nella nostra vita: siamo spaventati da ciò che non capiamo. Proprio a causa di questo, magari delle brutte esperienze avute in passato che non hanno portato ai risultati tanto attesi, iniziamo a sviluppare preoccupazioni verso qualsiasi situazione simile che possa ripresentarsi. Si crea quindi una scia di fallimenti di cui non ci si capacita, portando l'individuo che pensa di aver fallito a non rischiare più. L’unico modo per interrompere questo ciclo è imparare a rischiare, a buttarsi, facendolo, però, in modo intelligente.

Per riuscire a uscire da questo circolo vizioso, il mio consiglio è quello di iniziare a pensare alle priorità, alle cose a cui teniamo di più. Dovremmo dedicare un po’ di tempo a riflettere e a capire in che progetto ci stiamo imbarcando, trovando il modo di “avvicinarci al fuoco senza però bruciarci”. Prima di rischiare su larga scala, iniziamo dalle piccole cose. Siamo ovviamente più impauriti dai rischi di grossa portata che da quelli che avrebbero conseguenze minime. Quindi, innanzitutto, cominciamo a considerare ciò che causerebbe il male minore.

Questo modo intelligente di rischiare può diventare un riflesso condizionato oppure richiede una continua autodisciplina che ci insegni continuamente a superarne le paure connesse?

Tyler.  Domanda interessante. Il “rischio intelligente" può sicuramente diventare un’abitudine, come qualsiasi altra cosa. Ripetendo i passi necessari ad affrontare dei rischi controllati (attraverso un’attenta ricerca, pianificazione, test, valutazione, etc.) si arriverà a un punto in cui questo lavoro diverrà parte integrante della nostra vita quotidiana .La paura del risultato rimane sempre. E' nella natura dell'essere umano: se non obblighiamo noi stessi ad agire attraverso uno sforzo conscio, rimarremo sempre in una situazione di immobilismo. E' così che funzioniamo. Quindi, benché conosciamo le modalità per fronteggiare dei rischi in maniera intelligente e cerchiamo di applicarne le regole, senza una spinta diretta e consapevole finalizzata a mettere in pratica queste abilità e a iniziare a rischiare, rimarremo sempre e comunque confinati nel nostro orticello, luogo certamente sicuro, ma che, ovviamente, ci impedirà una vera crescita.

Secondo la sua esperienza, assistiamo a un aumento della fiducia in noi stessi anche dopo aver corso dei rischi minimi? Questa sicurezza ci permetterà di rendere il processo meno sofferto?

Tyler.  Sì, sicuramente. Rischiare è una parte fondamentale dell’esperienza umana. Come qualsiasi altra cosa nella nostra vita, diventa più facile con la pratica. Prima di camminare, i bambini gattonano. Camminano prima di correre, e corrono prima di guidare una macchina, volare aeroplani, e via discorrendo. A ogni passo, c’è una barriera di paura che deve essere fronteggiata. Non è però difficile abbatterla se abbiamo guadagnato sicurezza in noi stessi grazie ai successi che abbiamo accumulato nei passi precedenti. Tutte le fasi fanno parte di una progressione naturale. Nessun bambino inizia a camminare e poi esclama: “ ora mi posso fermare.” Tendono naturalmente a spingersi più in là, proprio perché questo è proprio quello per cui sono stati “programmati” e si accorgono che altri lo hanno fatto/potuto fare prima di loro.Il rischio funziona allo stesso modo. Siamo qui per rischiare. I nostri antenati lo hanno fatto per centinaia di anni e altrettante generazioni; è la ragione per cui siamo al vertice della catena alimentare. Il nostro compito è di continuare a seguire questo percorso. Per ogni rischio che corriamo, impariamo qualcosa che metteremo in pratica durante la prossima sfida e questo, ovviamente, rende tutto meno preoccupante.

Quali sono i rischi che una persona può iniziare a fronteggiare nella propria vita? Ci può offrire qualche esempio?

Tyler.  E’ sicuramente una questione che varia a seconda del singolo individuo, quindi preferisco non fornire indicazioni specifiche. Ricordate che ognuno di noi ha delle abilità più o meno spiccate a seconda della situazione in cui ci si trova. Ci saranno perciò rischi che porteranno a risultati differenti. Tutto dipende da diversi fattori: il momento storico in cui ci troviamo, la nostra età, le nostre origini, e così via. I nostri interessi giocano inoltre un ruolo importante. Impariamo e rischiamo negli ambiti che ci interessano di più. Quindi, invece di dire: “Ascoltatemi tutti, fate X”. Preferisco suggerirvi le seguenti indicazioni:

1. fate una lista delle situazioni rischiose in cui pensate di potervela cavare. Cosa non facile in quanto molto spesso tendiamo a ignorare le attività per cui abbiamo una propensione naturale; questo finché non notiamo che gli altri faticano a portarle a termine. Questa è un’opportunità preziosa per riuscire a crescere e maturare ancor di più.

2. Analizzate ciò che vi impedisce di raggiungere lo stile di vita a cui aspirate e iniziate ad agire per cercare di modificare questa situazione. Anche azioni piccolissime potrebbero risultare piuttosto scomode, ma questo è il primo segnale che stiamo percorrendo il sentiero giusto. In sostanza, cercate di lavorare sui vostri punti di forza e provate ad "agire" su quegli aspetti che vi creano più problemi. Quello che troveremo lungo il percorso si adeguerà di conseguenza.

Il Prof. Riccardo Fanciullacci (Docente di Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia e esperto nel campo della filosofia del rischio) e il Dott. Giovanni Garufi Bozza (psicologo esperto in  psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione e in Psicologia del Benessere nel Corso di Vita) ci hanno gentilmente offerto un’opinione più “filosofica” riguardo alle questioni trattate finora.

È d’accordo con la tesi sviluppata da Gurstelle?

Prof. Fanciullacci.Sia William Gurstelle, sia Tyler Tervooren ragionano a partire da una rappresentazione del ruolo del rischio nella vita umana, che coglie qualcosa di vero, ma dimentica anche qualcos’altro che sarebbe non meno importante ricordare.  L’azione di un essere umano è sempre la risposta che questi dà alla situazione in cui di volta in volta si trova. Questa situazione include le cose più diverse, non solo le fattezze dell’ambiente, ma anche le aspettative degli altri che sono in essa coinvolti, le aspirazioni, i sogni e le paure di colui che deve rispondere, i valori e gli ideali della società in cui questi si è formato. Il legame che c’è tra l’agire umano e il rischio sta qui: non c’è modo di azzerare la possibilità che si verifichino l’uno o l’altro (o entrambi) i fatti appena ricordati. Innanzitutto, non si è mai certi di aver considerato tutti i fattori di una situazione che potrebbero rivelarsi importanti, in secondo luogo, non si sa mai con certezza come prenderli, cioè che cosa significa “calcolarli” (ad esempio: è relativamente facile capire come una parete del tavolo da biliardo respingerà una palla, mentre è molto, molto più difficile capire come una persona risponderà a una certa nostra offerta), in terzo ed ultimo luogo, non è possibile anticipare e dunque valutare tutti i possibili cambiamenti fortuiti che possono nel frattempo verificarsi. Possiamo allora concludere così: l’agire umano, nell’essere risposta a una situazione, è sempre a rischio di fallire; non ha mai la certezza di riuscire e tanto più è complesso (cioè tanto più sono complessi il fine che intende raggiungere e la situazione in cui si propone di raggiungerlo), tanto meno ha questa certezza.

Dott. Garufi Bozza. Parto da una domanda, per me fondamentale: che definizione diamo al rischio? Nel senso comune il rischio ha un’accezione negativa. Personalmente sono dell’idea che in un periodo come questo sia fondamentale rivalutare il colore delle parole: la crisi, l’errore, lo sgomento, possono diventare risorse, se l’ottica da cui partiamo ci permette tale rivalutazione. Su questa linea, anche il rischio può assumere il ruolo di risorsa per l’individuo, a patto che non si vada a spronare la persona all’eccesso, situazione che percepisco nella tesi di Gurstelle. Se vogliamo interpretare il rischio come la possibilità per l’individuo di mettersi in gioco, di sperimentarsi e reinventarsi continuamente, allora il rischio ha un’accezione positiva e può diventare un’opportunità per la persona, perché gli consente di incrementare la sua percezione di autoefficacia, di avere chiari le sue risorse e i suoi limiti, e di trovare nuove vie per superare questi ultimi, in breve di avere pieno possesso delle determinanti del benessere

 Pensa che la propensione al rischio sia una componente innata in un individuo oppure dipenda da fattori ambientali?

Prof. Fanciullacci. Se anche ci fosse una sorta di predisposizione genetica a rischiare di più o di meno, e francamente ne dubito perché mi pare evidentemente troppo vaga la nozione che le genetica dovrebbe saper ricondurre al patrimonio organico, la cosa decisiva è il modo in cui questa eventuale predisposizione è inquadrata socialmente, cioè quali sono i significati e i valori all’interno di cui è coltivata. La società, tuttavia, come ho spiegato, non è solo uno dei “fattori ambientali”. Concordo con Tervooren sul fatto che ci si possa addestrare a rischiare con intelligenza. Aggiungo solo due cose. La prima è che questo addestramento è solo un divenire più adatti a vivere nello scenario dato e non un tentare di modificarlo almeno un poco o un tentare di cambiare la propria posizione in esso. La seconda è che i consigli che egli offre sono di una genericità che non li rende specifici rispetto a quelli che potrebbe dare qualunque personal trainer; insomma, non sono il precipitato del sapere di un esperto (come lo è invece la diagnosi di una malattia fatta da un medico), ma sono il camuffamento del sapere di un esperto.

Dott. Garufi Bozza. Questa domanda ha attraversato tutta la storia della psicologia. Per ogni componente ci si è chiesti se fosse geneticamente determinata o appresa tramite esperienza. La mia impostazione, e di conseguenza la mia risposta, si rifà all’approccio bio-psico-sociale degli anni settanta, che ha dato finalmente una soluzione a questo quesito: il comportamento dell’individuo dipende da fattori biologici, dunque genetici, psicologici, e sociali (contestuali). In quest’ottica, sarebbe errato dare una determinazione in toto biologica o in toto esperienziale alla propensione al rischio. Penso dunque che ci siano tutte e tre le determinanti coinvolte. Prendiamo come esempio l’opposto del rischio, ovvero la paura di mettersi in gioco. Molto dipenderà certamente da fattori genetici, molto da quanto la madre sarà stata ansiosa con il bambino, facendogli sviluppare un attaccamento poco sicuro, e di conseguenza la paura a sperimentarsi da adulto (fattore psicologico) e molto da quanto il contesto in cui vive la persona permette di mettersi a rischio in modo sano (fattore sociale): sarà diverso che una persona sia cresciuta nella Milano bene o nel quartiere di Scampia? Una differenza ci sarà sicuramente, non necessariamente a favore della Milano bene, ma il contesto determinerà comunque una differenza.

Conosce altre teorie filosofiche e/o psicologiche riguardo al rischio che secondo lei potrebbero essere utili per la nostra ricerca?

Prof. Fanciullacci. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha definito le società contemporanee delle “società del rischio”. Con questa definizione ha voluto mettere in evidenza due cose, legate ma distinte. La prima è che la nostra vita e le nostre scelte corrono rischi molto superiori a quelli che correvano la vita e le scelte di uomini di altre società: una volta non c’era il rischio che politiche industriali sbagliate distruggessero o deteriorassero gravemente alcune delle condizioni generali della vita sulla Terra. E anche dal punto di vista di un singolo: quando era più ristretto lo spettro delle opzioni di vita, era più ridotto il rischio di un fallimento totale. ). Come dice Beck: là dove si può scegliere tanto, si può anche sbagliare tanto e dunque ci sono più rischi da affrontare. . La libertà è una cosa molto bella, ma ha i suoi costi e questo è uno di essi. Ora, è in questo tipo di scenario che diventa comprensibile perché Gurstelle e Tervooren tentino di insegnare alle persone come rischiare in maniera intelligente: non perché qualunque essere umano ha a che fare col rischio, ma perché noi, oggi, abbiamo a che fare col rischio in una maniera molto, molto superiore a quella di chiunque altro. La seconda cosa che Beck ci aiuta a vedere è che, a fronte dell’oggettivo aumento dei rischi, c’è anche un uso ideologico della figura del rischio: discorsi (massmediatici, ma non solo) che spaventano le persone rappresentando loro le situazioni cui hanno da far fronte come ancor più pericolose di quello che sono. Sembra un paradosso, ma non lo è: la vita è davvero più pericolosa che in passato, ma questo non significa che la pericolosità che le viene attribuita a livello della rappresentazione non sia eccessiva. Quello che intendo dire è che certe scelte sono rappresentate come più significative di quello che sono. Alla stessa conclusione arriviamo anche ragionando così: un conto è dire che per ottenere qualcosa si deve saper correre qualche rischio, e questo è vero, un altro conto è dire che se non sai rischiare, allora non puoi ottenere successo e dunque essere felice o avere una vita con un “alto indice di soddisfazione”; questa seconda cosa è vera solo se si accetta l’idea socialmente dominante di successo e di felicità, ma non ottenere quello che ci viene presentato come proprio di “una vita da sogno” non equivale a fallire.

Dott. Garufi Bozza. Questa  ricerca mi ha fatto pensare agli studi di Zuckerman. Negli ultimi anni sta prendendo sempre più piede il fenomeno dei Sensation Seekers, ovvero i cercatori di emozioni estreme. Tale fenomeno è strettamente collegato con il concetto di rischio. Con tale espressione ci si riferisce agli individui che nutrono un’attrazione particolare  per le attività rischiose, di qualunque genere siano. Tali attività vengono esercitate principalmente con l’obiettivo di sfidare la morte. Il concetto di Sensation seekers si deve per l’appunto a Zuckerman, il quale, mediante esperimenti sulle ripercussioni a lungo termine della sensory deprivation, cioè la deprivazione sensoriale o impoverimento di stimoli, aveva notato che alcuni individui presentavano la tendenza a sopportare le situazioni monotone a cui venivano sottoposti, meglio di altri che, al contrario, tendevano a diventare subito inquieti, provando sensazioni di forte avversione in assenza di stimoli. Secondo quanto ipotizzato da Zuckerman, le differenze emerse in questa situazione sperimentale dipendevano da una particolare disposizione comportamentale di questi individui. Si sono così individuate le caratteristiche preminenti che identificano i sensation seekers come persone relativamente giovani, con caratteristiche di personalità impulsive e a tratti aggressive, molto curiosi, anticonformisti e con livelli di ansia relativamente bassi.

Diversi autori hanno approfondito lo studio del fenomeno dei sensation seekers arrivando a molteplici spiegazioni riguardo il loro comportamento. Per alcuni le cause sono da ricercare nella società moderna troppo spinta agli eccessi, altri sottolineano la presenza di elementi narcisistici nella personalità, altri ancora colgono nei loro comportamenti la ricerca di attenzione familiare e sociale. I comportamenti dei cacciatori di emozioni si caratterizzano per lo scarso senso morale, l'indifferenza alle regole, l'inosservanza della sicurezza propria e di quella altrui. Attraverso condotte  trasgressive, infatti, questi individui mettono alla prova la propria capacità di controllo degli eventi e hanno come obiettivo il superamento della noia che caratterizza la loro vita quotidiana: guida spericolata, assunzione di droghe, alcool e altre sostanze che riducono i freni inibitori.

Per ulteriori approfondimenti, , il Prof. Fanciullacci ci ha consigliato:

Beck, U.,  La società del rischio, Carocci, Roma.

R. Fanciullacci, L’esperienza etica. Per una filosofia delle cose umane, Orthotes, Napoli.

M. Focchi, Il glamour della psicoanalisi, Antigone Edizioni, Milano.

S. Maso, Rischio, Cafoscarina, Venezia.

Per ulteriori approfondimenti, , il Prof. Garufi Bozza ci ha consigliato:

Zuckerman, M. (1994), Behavioral Expression and Biosocial Bases of Sensation Seeking, Cambridge University Press.

Farley, F. (1991), The Type T Personality, in Lewis P. Lipsett and Leonard L. Mitnick eds., Self-Regulatory Behavior and Risk Taking: Causes and Consequences, Norwood, NJ: Ablex Publishers.

 

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